Ogni giorno oltre centomila persone attraversano i confini italiani per lavorare nei nove Stati esteri a noi limitrofi: dalla Francia alla Slovenia, dalla Svizzera alla Croazia, dall’Austria a Malta, passando per l’Albania fino alle più piccole ma significative realtà economiche di San Marino, del Principato di Monaco e della Città del Vaticano. I cosiddetti frontalieri italiani, migranti di corto raggio secondo un’efficace definizione, fanno parte di una ben più corposa famiglia di lavoratori che dividono la propria giornata (o la settimana, secondo la definizione della direttiva europea 883/04) tra lo Stato in cui vivono e quello in cui lavorano. Sottoposti quindi ogni giorno a due differenti ordinamenti statali, sono parte degli 1,5 milioni di colleghi (sui 17 milioni di lavoratori quotidianamente in movimento per lavoro da un paese all’altro), nell’Europa a 28 per i quali la frontiera è poco più di un limite psicologico.
Forze di attrazione: un salario netto mediamente più alto, un mercato del lavoro di alta flessibilità (e basse tutele), dentro però tassi da piena occupazione ed alta domanda di specializzazione da parte dei sistemi d’impresa. Caratteristiche rafforzate in alcune aree del nostro paese (sul versante ligure e nell’area pedemontana), tanto dal tradizionale prolungamento di una migrazione storica interna dall’ex triangolo industriale, quanto da tassi di disoccupazione preoccupanti nelle aree di confine sul versante italiano, particolarmente nel Mezzogiorno. Variabili economiche e del mercato del lavoro, opportunità professionali che ciascun portatore di un know how adeguato, ritrova all’interno della libera circolazione, morfologia dei territori che consente in maniera più o meno agile di attraversare le regioni di confine come, o forse meglio, di quanto accade per le grandi aree metropolitane delle città del nord Italia, sono fattori che ne hanno favorito la crescita pressoché costante negli anni. Evidente però che il flusso dei frontalieri è anche utile a descrivere il microcosmo di economie interregionali, interdipendenti in modo talvolta inestricabile, separate solo “incidentalmente” da una dogana, il più delle volte poco più che un’infrastruttura.
Accade così che per quelle economie locali (perlopiù importatori di manodopera qualificata), che in cambio di prestazioni qualificate riversano oltre 4 miliardi di euro sotto forma di salari e ristorni fiscali in Italia, il flusso migratorio divenga imprescindibile per lo stesso sviluppo territoriale. Accade che l’intero sistema sanitario ticinese si regga sugli infermieri italiani senza i quali non potrebbe funzionare, al pari del settore delle costruzioni, della ricettività turistica, di altre economie dei paesi di confine, per converso, il settore di cura dell’estremo nord est italiano si fermerebbe senza le oltre 15000 colf e badanti provenienti dalla Slovenia.
Inutile ricordare che la permeabilità dei confini è integrazione economica non meno di quanto lo sia culturale, comunitaria e spesso linguistica. Nella maggior parte dei casi, in primis per ragioni storiche, l’integrazione delle comunità che parlano la medesima lingua (italofoni o altri idiomi nelle aree del bilinguismo alpino), ed hanno le medesime tradizioni, derubricano la questione della frontiera a tema meramente amministrativo. Un, fatto quest’ultimo, che rappresenta una vera e propria frattura nei dogmi delle culture nazionaliste e populiste che ripropongono sovente, anche in questi luoghi, un’improbabile identità di sangue e di suolo che i fatti quotidianamente s’incaricano di spazzare via. Altra è invece la valorizzazione delle tradizioni locali, il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico della dimensione locale, fantastici driver per lo sviluppo “glocale” delle aree regionali: con i piedi ben ancorati nel territorio, ma la testa che guarda alla dimensione internazionale.
Accade così che i frontalieri, veri e propri pendolari internazionali, forse loro malgrado, con il loro movimento continuo, il cui raggio di azione è aumentato nel corso degli anni anche grazie al miglioramento della velocità dei trasporti, cancellino l’idea stessa di Stato, tanto come entità amministrativa quanto come condizione dello stare in un solo luogo. Condizione che richiede quindi un maggiore sforzo interpretativo rispetto a quanto oggi disponibile sul piano della norma giuridica che (poco) li definisce, li obbliga e li tutela, proprio per quella condizione terza rispetto ai perimetri definiti dello Stato Nazione.
I giorni complessi della pandemia che stiamo vivendo fa esplodere in tutto e per tutto le contraddizioni. Il virus “taumaturgico” che, come la bassa marea fa riaffiorare gli scogli più aguzzi ci pone, anche in questo campo, di fronte al possibile cambio di paradigma. Nei giorni immediatamente successivi all’allarme Covid -19, abbiamo assistito ad un muoversi scomposto delle Cancellerie. Tra chi ha chiuso i varchi, chi ha organizzato in fretta e furia trasbordi “etnici” di massa per terra e per mare, chi, al contrario, ha resistito fino all’ultimo all’idea che nel rapporto tra economia, lavoro e salute si potesse individuare un soluzione win- win, vera, ovviamente, solo fino alla sua capitolazione. Sono apparsi, a giudizio di chi scrive, come esercizi disordinati di sovranità limitata (ciò resta alla forma dello Stato Nazione dopo la perdita di quella economica e monetaria), dolosamente privi di una strategia comune. Iniziative però che non hanno potuto oscurare, ma anzi, se possibile, hanno amplificato il tema dell’interconnessione e dell’inadeguatezza delle politiche interregionali. Perlopiù rette su modelli e relazioni istituzionali desuete e perciò stesso in difficoltà nel declinare le sfide della modernità. Politiche che richiederebbero forse una riflessione comune, ben oltre il tema delle tutele del lavoro (preziose e prioritarie per chi svolge la mia professione), che s’interroghino sui nodi strutturali della coesione sociale delle nostre comunità contigue, sulle virtù potenziali prima che sui vizi patologici. Un dibattito sottratto alla discussione delle tante pance populiste alla ricerca continua di un nemico esterno a cui attribuire le colpe dei nostri fallimenti ed affidato, invece, alla testa delle tante comunità di destino che popolano con profitto il nostro continente.
Nei giorni del lockdown generalizzato, popolati di tanti auspici affinché la riflessione ai tempi del coronavirus sia foriera di ripensamenti futuri, mi pare utile ricordare che nell’apprendimento, come nella vita, la memoria, più della speranza, non è una variabile indipendente.
Giuseppe Augurusa