Il termine “glocal” è un lessema che sta prendendo sempre più piede nel linguaggio contemporaneo nell’epoca della globalizzazione, diventando degno spunto di approfondimento. Lo si può appunto constatare in vari campi: quello gastronomico, quello della moda, quello del design, quindi in tutti gli ambiti che vanno a costituire l’identità culturale di una determinata realtà.
Il glocalismo del made in Italy si fa sempre più riconoscibile, come appunto constatiamo con l’esempio dell’associazione “Design for All” che appunto promuove una progettazione per l’individuo reale, inclusiva ed olistica, che favorisce le specificità di ognuno, coinvolgendo la diversità umana nel processo progettuale. Allo stesso modo l’associazione “Slow Food” la quale, pur essendo nata in Italia e ideata da italiani, ha una denominazione in inglese. Entrambi i casi presentano il carattere glocal, quindi realtà ed entità locali (italiane) che si rendono comprensibili e percepibili alla realtà e alla fruizione mondiali, presentando una effettiva efficacia. Dunque il fenomeno del glocalismo si riversa anche sul versante del linguaggio.
Un esempio analogo (di italicità) ai casi appena citati è il brand Napapijri. Questa azienda è stata fondata nel 1987 da Giuliana Rosset in Valle D’Aosta e acquisita successivamente nel 2004 dalla Vf Corporation, che è un’azienda statunitense. Napapijri è un termine finlandese che indica circolo polare, dunque si tratta di prodotti intesi per un certo tipo di utilizzo (questa azienda nasce glocal). Il nome in questo caso significa, esprime ciò che il prodotto rappresenta, ha una propria funzionalità. Anche in questo caso si ha un glocalismo poiché il brand si adatta alle effettive caratteristiche del target ma rappresenta appieno un esempio di come la cultura/tradizione italiana possa essere prodotta al di fuori dei confini nazionali, obbedendo alla logica dell’italicità.
Un ulteriore esempio che verrebbe in mente in riferimento all’ambito culturale italico è quello cinematografico e televisivo, più precisamente dall’emergere della produzione italiana seriale. Recenti serie TV crime hanno ottenuto un notevole successo su scala nazionale e soprattutto su quella internazionale: cito a riguardo Gomorra e Romanzo criminale. Queste due opere/serie TV vengono inserite nel genere denominato dal collettivo Wu Ming “New Italian Epic”. Pur trattandosi di un genere del tutto italiano, e più precisamente di epica italiana, la denominazione anche in questo caso è in lingua inglese, pertanto ci troviamo di fronte ad un altro esempio di glocalismo.
La ricezione del ganster italiano (local) si è rivelata globale. Il local si è adattato al global.
La globalizzazione ha influito sul Made in Italy rendendolo però glocal, senza comunque intaccare il vero stile e fare italiano poiché, come già affermato, è possibile ottenere prodotti italici anche attraverso la produzione su un territorio non italiano oppure da parte di italici, ossia persone non italiane ma che hanno vissuto in Italia e appreso il Made in Italy, come nel caso di Abarth (austriaco naturalizzato italiano) e Sottsass (nato in Austria ma vissuto in Italia).
Attraverso la dimensione glocal, l’italicità si rafforza: un prodotto all’estero acquista ulteriore unicità poiché nell’incontro e nel confronto con l’altro, l’identità si rafforza (qualità, design, funzionalità). Inoltre il glocalismo valorizza la pluralità dell’italicità, ossia uno stile capace di adattarsi ad altre realtà ma allo stesso tempo di emergere e di eccellere per le peculiarità che presenta. È nel confronto/paragone che si manifesta quello scarto che fa la differenza. A questo riguardo, l’elemento che emerge in primis è la cultura dell’immagine, il senso del bello che caratterizza il prodotto italico. Infatti, un’altra questione che è emersa parlando di italicità e di Made in Italy trattando il design italico è l’importanza del binomio qualità e ricercatezza estetica: il senso del dettaglio, del particolare che fa la differenza. A questo riguardo cito un’affermazione di Sottsass riguardo alla macchina da scrivere “Valentine”:
"non doveva assolutamente ricordare la monotonia delle ore di lavoro ma piuttosto fare compagnia agli amanti dei poeti nelle tranquille domeniche in campagna o essere un oggetto colorato sulle tavole degli appartamenti studio dei giovani che si ribellavano al sistema. Ettore trasformò così la tecnologia di allora, facendola crescere, trasformando una macchina da lavoro dallo stato servile in un oggetto del desiderio. Ci ha insegnato che la forma nel vero design non è solo o principalmente dovuta alla funzione, ma anche ad una proiezione visionaria, che spinge l’oggetto in avanti, l’oggetto stesso con il suo carattere seduttivo diventa il testimone o il pusher di una nuova condizione, insieme reale e simbolica, capace di mescolare in un modo differente funzione, status e desiderio. Così gli oggetti incorporano l’arte, le forme passate della decorazione, simboli, storie, diventando attori e protagonisti per nuovi stili di vita. […] Oggi diremmo che fu un progetto, uno dei primi, ad avere una design direction, a svilupparsi secondo una strategia totale di cultura e di prodotto"
La dimensione artistica è fondamentale: è il tocco artistico che contraddistingue il fare italiano, il fattore estetico predomina ma senza privare il prodotto italico della suo essere utile e funzionale. L’Italia è associata al bello poiché si è cristallizzata questa immagine/idea dato che sin dal passato l’Italia si è identificata e distinta per una certo valore estetico.
Vediamo come nel presentare i prodotti italiani, questi suscitino un certo appeal, un desiderio di essere ciò che viene mostrato e di identificarvisi, di possedere il prodotto italico. Si punta sulle emozioni, fattore riscontrabile dal target stesso. “Valentine è un pezzo di umanità che viene trasferito alla macchina. […] Dimostra come fosse possibile intendere il design come un tema culturale oltre che tecnico. […] non ci sono solo fattori ergonomici ma emozioni coinvolte nel modo in cui pensiamo e usiamo le cose”. Si parla a riguardo di storytelling, del modo in cui viene raccontato un prodotto e della storia che vi è dietro. Dunque l’italicità è anche questo, il modo in cui essa si presenta e viene percepita. È importante il tipo di sensazione ed essenza che comunica, l’immagine che dà e le emozioni che scaturiscono successivamente.
Pertanto constatiamo che l’impatto visivo e dunque l’immagine, gioca un ruolo importante nel percepire un prodotto., d’altronde anche l’occhio vuole la sua parte. Ci sono una serie di rimandi a questo riguardo. Il design italiano bada alla forma e alla sostanza ma si contraddistingue in primis per il suo tocco di originalità, anche solo un dettaglio, come ad esempio “la squillante cassa in plastica rossa” della macchina Valentine.
Molto interessante è inoltre l’affermazione di Ettore Sottsass: “Sono molto amico della gente che ha paura. Ecco, forse questa è l’essenza, la più semplice, del modo italiano di fare”, ossia l’italicità può in questo caso essere interpretata come una continua sperimentazione e, di conseguenza, un rischio nell’avventurarsi nell’ideazione di un prodotto.
L’Italia è da sempre accomunata al bello, al piacere e questi comunicano e trasmettono sensazioni ed emozioni positive. Ciò si ricollega alla questione della reputazione dell’italicità e di mantenimento di detta reputazione, che può vantare una forte presa e influenza.
Anche nell’ambito della gastronomia vale lo stesso concetto: l’ibridazione, la contaminazione, la sperimentazione, il rinnovamento, sono fondamentali per far sì che lo stile all’italiana e il fare all’italiana restino innovativi, creativi, anche in questo caso vincenti perché in grado di adattarsi alle esigenze del momento e al contesto contemporaneo, proprio perché la tradizione è un insieme di tante innovazioni: essa sfrutta il patrimonio disponibile per poi combinarsi con elementi nuovi, il tutto contornato da uno sterytelling in grado di comunicare e veicolare l’italicità.