I primi mesi della pandemia vengono esaminati attraverso il racconto dei protagonisti delle nuove migrazioni con 30 interviste e un questionario a cui hanno risposto 1.200 italiani da 57 paesi esteri che vanno da mete ‘classiche’ come Germania, Francia, Svizzera a destinazioni ‘nuove’ come Emirati Arabi Uniti, Cina, Filippine – residenti all’estero da non più di 15 anni. La seconda parte raccoglie le testimonianze e le previsioni di “addetti ai lavori” – parlamentari, funzionari, docenti, esponenti di enti o associazioni – sul futuro delle mobilità italiane. L’Inchiesta spazia dal racconto dei primi giorni della pandemia, con le fughe per tornare in Italia, o nella propria casa all’estero, alle quarantane dei “ragazzi confinati in una stanza d’affitto” senza sapere se seguire le norme anticontagio italiane, alle paure per i propri cari in Italia, unite a quelle per la perdita del lavoro. I nuovi migranti più integrati economicamente hanno mostrato di affrontare bene il lockdown. La grande maggioranza ha continuato a lavorare, chi normalmente (15%), chi in modalità teleworking o smartworking (52%). L’11% ha usufruito di ammortizzatore sociali come la cassa integrazione, o l’aspettativa retribuita. Da tutte le testimonianze emerge che i più colpiti sono stati i lavoratori del settore della ristorazione, a cui probabilmente appartiene quel 6% degli intervistati che ha perso il lavoro, chi è rimasto a casa senza stipendio ˗ e molti degli ‘invisibili’, quelli arrivati negli anni più recenti, di solito non iscritti all’Aire. Naturalmente la situazione cambia da stato a stato, e se in Germania o Francia gli italiani paiono esser soddisfatti della reazione delle istituzioni, in altri paesi come Regno Unito, USA, ma anche Svezia, si percepisce un maggiore scetticismo, sia per quanto riguarda la tutela del lavoro sia per la gestione della salute pubblica. Con il Coronavirus, come chiarisce un giovane italiano a Oslo che risponde “si è aggiunto un criterio fondamentale per la selezione di un paese nel quale trasferirsi: la sanità!” Alla nostra domanda se la crisi scatenata dal Coronavirus aveva messo in discussione la loro scelta migratoria, la maggioranza ha risposto di no, ma occorre tener presente che il questionario è stato autocompilato e diffuso tramite passaparola. Con la nostra inchiesta siamo quindi riusciti a intercettare prevalentemente i più istruiti e strutturati, appartenenti alla fascia di età più matura: 30-39 anni. Con la pandemia è vero sì che il mondo si è allontanato fisicamente, ma si è anche avvicinato grazie al web e allo sviluppo delle varie forme di lavoro a distanza: smart work e telelavoro. Resta da vedere se un numero sempre maggiore di persone sarà in grado di scegliere dove risiedere senza varcare alcun confine e se i meno qualificati, gli ‘invisibili’, o i lavoratori di settori che non potranno usufruire della flessibilità lavorativa, continueranno a emigrare per la mancanza di opportunità in Italia. Secondo Maddalena Tirabassi, “Il grande interrogativo sulle cifre delle migrazioni italiane in un prossimo futuro riguarda non tanto questa generazione, cresciuta all’insegna delle libertà di movimento, ma le prossime, o quantomeno proprio la Next generation che non sappiamo per quanto tempo sarà costretta a studiare e lavorare in remoto”.
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