«Quando avevo diciotto anni i miei hanno messo me e mia sorella su una nave e ci hanno mandate qui», racconta. «Mio zio, il fratello di mio padre, faceva l’insegnante di danza a Muggiò e ci ha ospitate per un anno». Sì, Eri è arrivata in nave con un visto di un mese, come tanti suoi connazionali alla fine degli Anni 90. «Il trauma più grande, peggio ancora della traversata tutti ammassati, è stata la perquisizione, quando siamo approdati a Trieste. Ci hanno controllato fin nelle mutande», ricorda. Era il 1998, l’Albania usciva da anni di disordini e guerra civile, iniziati con la caduta del comunismo nel 1991 e non ancora sedati: il caos regnava sovrano, c’era violenza ovunque, la gente sparava per strada. «Noi ragazze andavamo in giro infagottate nei maglioni dei nostri padri, per noi l’occupazione principale era evitare gli stupri». Io, che ho l’età di Eri e a quel tempo guardavo a malapena il telegiornale, rabbrividisco. E mi fa specie anche sentirla parlare della sua infanzia, così diversa dalla mia. «Il regime è caduto nel 1991», dice. «Io sono nata nel 1980, quindi per undici anni ho vissuto il comunismo e lo ricordo bene. Non mi scordo quando alla scuola materna mi dicevano che avevo tre madri: la mia, la maestra e il Partito, che in lingua albanese si dice “Partia” ed è di genere femminile. Le prime due le capivo, ma la terza proprio no. Mi perdevo in quei ragionamenti, non ne venivo a capo. Né dimentico quando nel 1985 è morto Enver Hoxha, il dittatore, e a scuola ci hanno fatto vedere i funerali alla Tv. Sapevo di dover piangere ma proprio non ci riuscivo». Ricorda anche quando suo padre, che faceva il regista Tv, usciva di casa con la macchina fotografica per andare a documentare le rivolte e lei era convinta che sarebbe rimasta orfana. «Nella mia testa avevo già pronto il monologo drammatico per raccontare la vicenda», ride. «È stato lì che ho capito di avere una propensione per il teatro». Eri ha studiato recitazione prima di lasciare l’Albania, ha continuato in Italia – «L’italiano l’ho imparato a sei anni, ma quando ho scoperto la dizione è stato come ricominciare da capo» – e oggi fa la regista, recita e insegna agli altri a farlo. «Ma prima di iscrivermi al Dams ho fatto tre anni di medicina. Ho mollato quando ho capito che non era la mia strada», dice. «Nel frattempo lavoravo come au pair in una famiglia, dove sono rimasta sei anni». Sono stati loro a fare la differenza, nei primi tempi a Milano. Quando le chiedo se si è mai sentita discriminata per la sua provenienza, ho paura di sentire la risposta, ché conosco il disprezzo che noi italiani abbiamo spesso riservato agli albanesi e me ne vergogno parecchio. «A me è andata bene», mi rassicura lei. «Non sono mai stata trattata male. Anche se ogni tanto qualcuno, pensando di farmi un complimento, mi dice che non sembro albanese». I tormenti di Eri sono stati altri, lo sono ancora oggi. «La mia vita ormai è qui, ma non lo è al cento per cento. A volte penso che vorrei tornare a Tirana, dove vivono ancora i miei, perché le cose sono cambiate, c’è più libertà di una volta. Ma alcuni meccanismi sono troppo radicati nella mentalità dei miei connazionali, dopo tre giorni che sto là voglio fuggire di nuovo». Così la sua Albania Eri la porta nel cuore e nelle ossa, la tira fuori quando ha ospiti – impossibile uscire da casa sua senza aver mangiato fino a scoppiare – la mette pure nelle scelte registiche, nel senso del tragico e nella carnalità che caratterizzano i suoi lavori. In fondo quel che non uccide fortifica, e lei ne è la prova lampante.
Questo è un estratto di un’intervista video che abbiamo fatto a Eri nel salotto di casa. Lo stiamo montando: stay tuned!
Intervista a cura di Ram on the run