Dottor Marta

Marta ci piace dal minuto uno perché parla molto e lo fa come se ci conoscessimo da sempre. Ogni tanto si scusa per il fiume di parole, ma a noi sta bene così – in fondo siamo qui per questo, per ascoltare la sua storia – tanto più che quello che ci racconta è piuttosto divertente: quella volta che ha ospitato una tartaruga di 28 chili nella vasca di casa, quell’altra che ha fatto breccia nel cuore di un pennuto che beccava tutti tranne lei, quell’altra ancora che ha aperto la porta della clinica e si è trovata davanti un montone malandato (lontano cugino del nostro?).

Marta ha 34 anni, da due vive a Muscat e, come è facile intuire, di mestiere fa la veterinaria. Il braccio, però, che al momento del nostro incontro è imbragato in un tutore, non gliel’ha rotto un paziente, come eravamo già pronti a scommettere: «Mi sono fatta male giocando a rugby», spiega svelandoci una delle sue tante passioni. Professionalmente parlando, dell’Italia si è stufata presto: qualche tempo in una clinica di Parma e poi via, prima ancora di trasferirsi in Oman ha passato tre anni a Hurgada, in Egitto. «Lavoravo in una charity svizzera, le prestazioni erano gratuite per tutti», racconta. «Anche i più poveri potevano portarci i loro animali, o quelli che trovavano per strada, da vaccinare, sterilizzare e curare: ne vedevamo fino a tremila l’anno, cani, gatti, ma anche uccelli, cicogne, rapaci, cammelli, volpi». L’Egitto, però, non è un Paese facile dove mettere radici. «Ci sono tanta povertà, ignoranza, corruzione. Tutte cose che alla lunga si ripercuotono anche sugli animali e sul modo in cui le persone li trattano». Così Marta fa le valigie e approda a Muscat, assunta in una clinica privata dove oggi lavora con expat delle nazionalità più disparate, inglesi, tedeschi, croati e indiani. «In Oman non esiste il titolo di studio di medico veterinario», spiega. «Per questo siamo tutti stranieri». Agli animali, d’altra parte, poco interessa della lingua parlata da chi si prende cura di loro. «In Egitto ho imparato l’arte di arrangiarmi», continua. «Qui è più semplice». Gli stipendi sono buoni, i mezzi adeguati, i giorni di ferie tanti. E non si vive affatto male. «Gli omaniti sono carini, disponibili, sempre pronti ad aiutarti in caso di bisogno. Certo, se non lavi la macchina ti danno la multa, ma basta saperlo». Adeguarsi è la parola d’ordine, per rispettare usi e costumi del posto e non offendere i locali: «Nessuno mi vieta di indossare una canotta», afferma ancora. «Sono io stessa a decidere di non metterla se il contesto non è adatto». Il pub dove ci incontriamo, per esempio, è zona franca: Marta è sbracciata (nonostante le lame di gelo provenienti dal condizionatore) e si servono alcolici, anche se a caro prezzo. Inutile dire che di donne omanite non c’è nemmeno l’ombra: loro preferiscono stare a casa o trovarsi in luoghi riservati al gentil sesso. Tranquille, signore, al lavoro sporco (tipo bere la birra) ci pensiamo noi…

Arrticolo a cura di Ram on the run