L'italiana di Salalah

Di primo acchito Salalah non ci sembra un granché. Sarà che arriviamo di sera dopo dieci estenuanti ore d’auto, sarà che il nostro albergo è sullo stradone per l’aeroporto e il paesaggio non è dei più allettanti, ma anche dopo una prima esplorazione la città – la seconda dell’Oman e la più importante del sud, anche se ha solo 200 mila abitanti – non finisce di convincerci. 

La moschea – piena di pannelli informativi sull’Islam che vale la pena leggere – il suq dell’incenso e le piantagioni di cocco, papaya e banane sono interessanti ma non valgono il viaggio fin quaggiù, o almeno così ci pare. A farci cambiare idea è l’incontro con Alice Tosi, che ci racconta la sua storia e ci apre un mondo che senza di lei non avremmo nemmeno sfiorato. Figlia di un paleontologo innamorato dell’Oman, ha cominciato a fare avanti e indietro dall’Italia quando aveva tre mesi. «Sono cresciuta qui, poi sono tornata a Roma per studiare», dice. «Sette anni fa, però, io e mia madre abbiamo deciso di trasferirci definitivamente per occuparci di turismo». Si stabiliscono a Muscat, ma si stufano presto. «A Salalah, invece, abbiamo trovato la nostra dimensione e una casetta sulla spiaggia che fa proprio al caso nostro», continua. Per qualche tempo lavorano come free lance, poi, l’anno scorso, aprono la loro agenzia, Dhofar International Tourism. «Ci teniamo a fornire un servizio di qualità per contrastare il turismo di massa che dilaga ultimamente», spiega. «Da tre-quattro anni Salalah viene proposta come “estensione mare” e trattata come una nuova Sharm. Orde di persone arrivano qui senza sapere nemmeno dove stanno andando, credendo che ci siano solo le spiagge, si chiudono nei resort e quando si spostano lo fanno in carovane di quaranta jeep». Confermiamo: alla moschea, poche ore prima, abbiamo incontrato due pullman di connazionali impegnati nella classica gita da villaggio/crociera. «Persino le guide, che per legge dovrebbero essere omanite e pagate adeguatamente, sono egiziani “travestiti” che guadagnano due soldi. Noi, invece, lavoriamo con la gente del posto, i jabali, delle specie di cowboy con il pick-up arrugginito e il fucile a tracolla: a Muscat e nel nord li considerano dei bifolchi, ma per noi sono collaboratori fidati e amici fedeli, che ci rispettano e ci proteggono». È con loro che si parte alla scoperta dei siti archeologici, della costa e del Quarto Vuoto, il secondo deserto di sabbia più grande al mondo e il meno esplorato. Alice ci mostra delle foto pazzesche e noi ci mangiamo le mani perché abbiamo un aereo di lì a poche ore. Resta giusto il tempo per un tour della città, che ci si rivela sotto una luce tutta nuova. «Salalah significa “la splendente” perché un tempo tutte le case erano intonacate con il gesso bianco importato dall’Africa», ci spiega lei. «Quando le navi arrivavano in porto – la città era nodo cruciale nel commercio degli schiavi – il sole si rifletteva sugli edifici e li faceva brillare agli occhi dei marinai». Oggi di quelle vecchie costruzioni resta ben poco: «La corsa alla modernizzazione sta cambiando tutto, case come quella dove viviamo io e mia madre cedono il passo ai palazzi, persino l’antico suq è stato quasi completamente smantellato, prima era molto più esteso». Girando in auto, finiamo in angoli impensati, tra le viottole del mercato pakistano in allestimento, dove la frutta è freschissima ed economica, fino all’unica moschea sciita della città. In un negozio d’abbigliamento compriamo i thob, tipici, coloratissimi abiti delle donne omanite, che Alice ci mostra come indossare in chiave occidentale. «Secondo la leggenda, il piccolo strascico serve a cancellare le tracce per non farsi seguire dagli spiriti maligni», rivela. Da Al Diwaniya assaggiamo l’halwa, dolce gelatinoso a base di acqua di rose e aromatizzato con frutta secca, incenso o zafferano, sul lungomare ammiriamo i ruderi destinati presto a sparire. Intanto lei ci racconta delle feste di nozze sotto i tendoni, delle donne che festeggiano per conto loro e si preparano per tre giorni con chili di henné, trucco pesante e parrucche, dell’ex ministro della cultura che s’è trovato a fare il sultano da un giorno all’altro perché Qaboos, prima di morire, aveva scritto il suo nome in una busta, delle famiglie di venticinque persone che vivono tutte nella stessa casa, degli acquazzoni potenti che un po’ le mancano, perché qui anche quando c’è il monsone e pioviggina per due mesi non ci si mette mai sul divano sotto la coperta. «E i concerti reggae», conclude. «Anche quelli mi mancano. Ma non li baratterei con il senso di libertà che mi dà stare qui, nel luogo che per gli antichi coincideva con la fine del mondo. Non c’è niente come guardare il mare e pensare che, se cominci a nuotare, non incontri terra fino all’Antartide».

Intervista a cura di Ram on the run